Il
mestiere di scrivere fa buona pratica della gomma.
Limare,
ridurre, asciugare il testo è in verità un’operazione difficile, spesso
dolorosa. Ci sono parole cui ci affezioniamo, innanzi tutto, quelle cui ci
sembra impossibile rinunciare. Ci sono frasi che hanno un suono incantevole, che
a tutti i costi cerchiamo di salvare. Ci sono passaggi che ci riesce di
descrivere solo con un fiume di aggettivi, ciascuno dei quali ci convinciamo
abbia enorme rilevanza. Ci sono stati d’animo che crediamo gonfi di sfumature
traducibili solo con una massa di vocaboli ai quali restiamo incollati.
E’
il concetto stesso di sintesi che talvolta aborriamo, come se fosse un nemico
della letteratura. Oggi ancora di più.
Già,
oggi che siamo incastrati nella comunicazione veloce, che adottiamo sigle e
acronimi, che dialoghiamo con formule brevi, quello del libro lo difendiamo
come spazio di prosa piena, ricca, morbida. Un romanticismo al quale
francamente cedo volentieri, io che adoro la narrazione che gioca nel fascino
del vocabolario e delle espressioni. Eppure lavorando ho affinato le forme, ho
imparato a declinarle diversamente nei differenti contesti, a concepire la
forza del linguaggio immediato, a interpretare in modo euforico e potente la
semplicità.
Occorre fuggire, più di
tutto, la ridondanza. Inseguire l’equilibrio tra troppo e poco è un viaggio
faticoso ma affascinante. Il Less is more
narrativo è un’arte magica cui ambire con un mix di passione e rigore: quando
ami l’essenziale, cancelli il superfluo.
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